Comunicazione

L’importanza del noi

Il pronome di prima persona plurale, utilizzato con consapevolezza, può indicare attenzione al destinatario e partecipazione alla comunità, ma può essere anche uno strumento di inclusione e condivisione; significa anche prestare fiducia nel lavoro di coloro che, quando diciamo «noi», stiamo rappresentando.

Quando la Signora di ferro Margaret Thatcher – prima donna a diventare primo ministro inglese, lo rimase per un tempo lunghissimo, dal 1979 al 1990 – disse, in un’intervista nel 1989, «We have become a grandmother» («Siamo diventate nonna») utilizzando un plurale che spettava sì alla carica ma per un argomento fuori contesto, non pensava all’effetto comico che ne sarebbe derivato.
Alcune maestà (ormai pochissime) utilizzano il pronome di prima persona plurale «noi» per indicare sé stesse: è una questione di comprensione del ruolo, ma anche di rappresentanza di un’entità che va oltre l’individuo: un Paese, un Regno, ecc.; e a pensarci deve essere difficile per una regina indicarsi, magari mentre fa colazione, come una comunità.
Il «noi» è utilizzato anche in didattica, quando un insegnante fa un esempio, e fino a qualche anno fa era consigliato nell’argomentazione di un discorso in una tesi, in un libro (anzi: lì era decisamente sconsigliato l’uso dell’«io»). In narrativa poi, quando l’autore ci parla includendosi nel discorso si avvicina ai lettori, costruendo un’azione che coinvolge.
I Papi, dopo Paolo VI, dal 1978 hanno abbandonato quest’uso se non negli atti ufficiali, salvo recuperarlo, come ricordava Francesco nel 2021, in un senso diametralmente opposto al precedente: come segno di condivisione, non di distanza.

Qualcuno argomenta che il pronome di prima persona plurale sia caratteristica dei leader moderni, per quanto da solo non sia sufficiente a trasformare una persona in leader, perché evidenzia una maggiore attenzione nei confronti degli altri. In effetti, un candidato alla presidenza degli USA di qualche tempo fa lo utilizzò all’interno del suo slogan elettorale, vincendo con un largo vantaggio (era Barack Obama, con lo slogan «Yes, we can», creato nel 2008 da un giovanissimo Jon Favreau).
Uno studio di qualche anno fa, pubblicato sul Journal of Language and Social Psychology, evidenziava come l’uso del pronome rifletta le gerarchie e lo stato sociale: sarebbero più disposti a usare il «noi» le persone con un’istruzione più alta e un ruolo sociale, rivelando uno spostamento del focus attentivo sugli altri rispetto a sé stessi.
I pronomi, aiutando a individuare il centro dell’attenzione di chi parla, svelerebbero insomma le nostre incertezze: persone che si avvertono insicure, timide, sottovalutate, sarebbero più propense a concentrare i propri pensieri, sentimenti e comportamenti verso l’interno e ad aumentare la percentuale di pronomi singolari in prima persona che usano nei loro discorsi; gli individui che usano il plurale (come il «noi») avrebbero invece una propensione a mostrare un focus esteriore, che tiene conto dei pensieri, dei sentimenti e dei comportamenti degli altri.

Il fatto è che l’attribuzione di un «noi» a una persona singolare può significare, come appunto nel caso della maestà, accrescere il rilievo dell’emittente nei confronti dei destinatari, con esiti anche risibili in alcuni contesti; ma può anche essere utilizzato in senso inclusivo, ricomprendendo cioè nella comunità l’emittente del discorso.
Vale per il noi sociativo e per quello narrativo, ma soprattutto in ambito aziendale — e ancor più nel settore della comunicazione, quando ci si rivolge ad altri — vale per restituire un senso di appartenenza e l’idea che a “fare” non sia l’individuo ma il gruppo, il team.
Implica una fiducia all’interno, verso i propri colleghi, verso l’istituzione alla quale si appartiene, che permette di metterci la faccia; che è poi ciò che fa differenza tra un lavorare appassionato e il vivacchiare dietro una scrivania, uno sportello o anche un vassoio gastronorm.
Implica, anche, l’esser disposti a prendersi la responsabilità di azioni altrui non per attribuirsene il merito ma per restituire un’immagine coerente dell’istituzione cui si appartiene.
Se svolgendo una pratica, se in una campagna di comunicazione diciamo «noi» riferendoci a un piatto di pasta, non dobbiamo dunque per forza aver messo un piede in cucina o una mano tra i fornelli (per lo più non si può, peraltro, perché lo impediscono le norme per una corretta igiene alimentare), ma decidiamo di dare la nostra garanzia a un lavoro che scommettiamo sia fatto per bene. Tutto insieme, si finisce così per costruire un sistema e una comunità.

Networking

Tutto ciò, in un’epoca in cui, come spiega il Professor Giuseppe Riva nel libro Io, Noi, Loro: Le relazioni nell’era dei social e dell’IA: «Il “senso del Noi” è un bisogno umano fondamentale, radicato nella nostra biologia e nella nostra storia evolutiva» che l’iperconnessione digitale rischia di erodere, amplificando individualismo e solitudine: un «io» denso di insicurezze, appunto.

È l’altro (un altro) lato del «noi», che consente anche di ricomprendersi in un network, in una rete di fiducia di cui prendersi cura (come ricorda Annalisa Galardi, autrice del volume Comunicazione d’impresa, in un’intervista a Gianfranco Minutolo per il libro I robot non sanno fare networking), che per lo più consente di migliorare la qualità della vita aumentando, esponenzialmente, le opzioni sociali, professionali e pratiche e finendo per affermare meglio, udite udite, l’individualità di ciascuno.

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