Comunicazione

Siamo tutti clienti, non solo consumatori

Comunicare per l’azienda: significa rappresentare l’azienda di cui si fa parte, trasmettendone l’impostazione, l’approccio, i valori, attraverso le parole ma anche con gli atteggiamenti, l’abbigliamento, i toni.
Dal punto di vista formale è un’attività solitamente demandata a figure apicali di una organizzazione (il CEO, l’amministratore delegato, il presidente, ecc.), che hanno la titolarità della rappresentanza e possono esprimere in pubblico l’opinione o l’atteggiamento dell’organizzazione davanti ai media; il che succede, per alcune aziende, abbastanza raramente e implica in fondo un rischio molto basso, dal momento che per lo più si ha la possibilità di controllare preventivamente la maggior parte degli aspetti e dei contenuti, a meno di un «epic fail», cioè di un errore madornale, che peraltro si spera sia evento piuttosto raro.

Ma c’è di più.

Molto più spesso comunicare per l’azienda è un’attività informale, una pratica quotidiana che coinvolge tutti i lavoratori, a qualsiasi livello: significa soprattutto raccontare, anche nel momento in cui si risponde al telefono, si vende un prodotto o si restituisce un’informazione, il «che cos’è» più profondo dell’organizzazione cui si appartiene.

È un’attività che tutti coloro che lavorano con il pubblico, con i clienti, che forniscono beni o servizi (ri)conoscono. O pensano di riconoscere.

È anche, contemporaneamente, un’attività trasparente, perché si svolge quasi come un respiro, e come il respiro è influenzata da stati d’essere, d’animo, momenti e situazioni.

In ospedale, ci si indigna se i pazienti vengono parcheggiati «appollaiati su una lettiga per tre giorni» o «lasciati senza bere per tutta la giornata». Al pubblico poco importa se le infermiere sono in numero ridotto e hanno sopportato un turno di lavoro lunghissimo.

In un ufficio pubblico, è capitato a tutti di esasperarsi per la coda e inveire più o meno silenziosamente contro gli sportellisti, estenuati e scortesi già dalla prima mattina. Chi fa la coda non percepisce le preoccupazioni o gli stati d’animo di chi dall’altra parte, magari, ha impiegato due ore per raggiungere il proprio posto di lavoro.

Per chi ordina online –  e siamo tantissimi, ancora di più dopo la pandemia – l’opinione positiva o negativa sull’azienda cui è stato affidato il pacco è direttamente correlata all’atteggiamento del corriere che ci effettua la consegna. Siamo consapevoli forse solo di scorcio, e senza grande interesse, che il trasportatore è perlopiù un lavoratore indipendente, che magari ha appena iniziato un nuovo lavoro, e che ha fretta di concludere una infinità di consegne.

Sono esempi in cui la comunicazione per conto dell’azienda non ha niente di ufficiale, ma incide moltissimo sul patto di fiducia che porta una persona a scegliere o meno di utilizzare un servizio, di comprare un articolo. O anche di scegliere un corso di laurea.

È ovvio, e certamente è noto.

Il pericolo più evidente è che proprio perché questo aspetto è conosciuto e ovvio si tende spesso a trattarlo distrattamente, o a ignorarlo. Ma il fatto è che il cliente non è solo un consumatore; etimologicamente è “colui che ascolta [i consigli di qualcun altro]”, storicamente è colui che in un dato momento “dipende” da qualcun altro; che “ha bisogno”, e che poi restituisce di conseguenza: in un altro momento, raccontando la sua esperienza, facendoci pubblicità positiva con il passaparola o sui social, o al contrario, scegliendo di non sceglierci più e manifestandolo più o meno apertamente.

Si tratta di andare incontro all’interlocutore, valutando la soluzione al problema che pone e non lui come problema, senza lasciarsi prendere dalla paura che genera FAQ illeggibili o documenti troppo complessi, dal tono burocratico, che rispondono all’utente ma non offrono la soluzione.
Spinto all’estremo, questo approccio ottiene di chiuderla, la comunicazione, fino a invitare di fatto il cliente a non sceglierci più, se può farne a meno, o in certi casi a farne a meno anche se non può.
In tutti questi casi il recupero è lungo, e spesso la riparazione non è sufficiente: abbiamo perso il contatto con il nostro interlocutore, abbiamo trasmesso un valore negativo dell’azienda cui apparteniamo, anche pensando di fare bene, soprattutto non siamo riusciti a far bene il nostro lavoro.

A volte basta modificare poco perché la comunicazione si orienti positivamente. È sufficiente, spesso, una risposta che tenga conto del punto di vista dell’altro; un sorriso, una formula gentile per dire che no, non si può ma ci dispiace che non si possa – a patto che non si possa davvero, però.

La funzione Comunicazione può aiutare, non solo a scrivere avvisi o a costruire campagne pubblicitarie gradevoli graficamente e con una sintassi incisiva – il che comunque non guasta –, ma soprattutto a sviluppare delle pratiche comuni che diano sicurezza, assertività e aiuto, facendo della gentilezza e di un approccio amichevole un atteggiamento comune.

Quando distribuiamo un pasto, un libro, un modulo e persino un’informazione, o anche quando incrociamo uno studente che vaga con aria sperduta in un corridoio in cui s’è trovato per caso e nel quale non dovrebbe stare, una parola gentile, un’informazione data con garbo, cambiano tutto.

Siamo (siamo stati, saremo) tutti clienti. È facile, è difficilissimo.

EDUCatt EPeople