Fausto Colombo, un «manifesto per la gentilezza»
Da un breve profilo del pensiero degli ultimi libri di Fausto Colombo emerge chiaramente come la gentilezza nella comunicazione sia un ideale da perseguire, perché prima di tutto l’uomo è un essere comunicante.
Nella Premessa al suo ultimo libro pubblicato postumo da Vita e Pensiero e presentato alla Casa della cultura di Milano, Lezioni sulla cultura popolare, con grande eleganza, in un gesto di omaggio e di autoironia, Fausto Colombo cita un celebre testo di Roland Barthes, contenente la lezione inaugurale del corso presso il Collège de France nel 1977. Il giovane Colombo, a quel tempo laureando, fu fulminato da quelle parole. Da quel momento, come scrive, non smetterà di riferirle agli studenti, con l’obiettivo di trasmettere uno dei sensi più profondi e affascinanti della conoscenza, cioè la perpetua umile meraviglia del sapere di non sapere.
«C’è un momento in cui si insegna quel che si sa; ma subito dopo ne arriva un altro in cui si insegna quel che non si sa: questo si chiama cercare. Arriva forse ora quello di un’altra esperienza: quella di disimparare, di lasciar lavorare la modificazione imprevedibile che l’oblio impone alla sedimentazione dei saperi, delle culture, delle credenze che si sono attraversate. Questa esperienza ha, credo, un nome illustre e fuori moda, che oserei qui usare senza complessi all’incrocio stesso della sua etimologia, Sapientia: nessun potere, un po’ di sapere, un po’ di saggezza, e quanto più sapore possibile».
Fausto Colombo, nato il 16 aprile 1955 e scomparso il 14 gennaio 2025, è stato professore ordinario presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore sin dal 2003, dove ha insegnato Teoria della comunicazione e dei media e Media e politica.
Sin dal suo primo libro, Gli archivi imperfetti del 1986, il suo magistero si è concentrato, da una prospettiva sociologica, sul legame tra digitalizzazione e memoria e i suoi effetti sulle trasformazioni sociali, sull’analisi critica della rete, sul controllo dei dati e le sfide alla privacy, sulla storia dei media in Italia, aggiungendo, come scrive Ruggero Eugeni su Avvenire, a questi campi di studio una prospettiva filosofica, poiché «Fausto Colombo è nato filosofo, e da filosofo ha sempre lavorato nel campo delle comunicazioni sociali».
Questo approccio filosofico alla comunicazione trova la sua fulgida realizzazione nei volumi Imago Pietatis. Indagine su fotografia e compassione (Vita e Pensiero 2018) ed Ecologia dei media. Manifesto per una comunicazione gentile (Vita e Pensiero 2020).

Nel secondo, Colombo indaga uno dei temi centrali del nostro tempo riunendo due concetti decisivi, ecologia e comunicazione. Così come è necessario prendersi cura dell’ambiente naturale minacciato dalla crisi climatica, invito già di Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’ del 2015, appare fondamentale curare l’ambiente umano delle informazioni, con il proposito di sfumare la sensazione opprimente di non riuscire a comunicare, così viva nel mondo circondato dall’infosfera.
Se lo spazio della comunicazione è saturato di messaggi violenti, limitati, addomesticati, di fake news, di propaganda, di menzogna, di aggressione, ecco che l’ambiente è inquinato, e manca l’aria, non solo simbolicamente. La post-verità manipola l’io e l’altro, colui che la trasmette e colui che la riceve, ammala lo spirito e la carne, la prossimità e il contesto, poiché l’essere umano è per prima cosa un essere che comunica e che si rende uomo attraverso la comunicazione.
Anzi, scrive Colombo, la comunicazione «definisce l’appartenenza alla nostra specie, che proprio nel suo modo di comunicare diverge completamente dalle altre specie animali» e questo assunto è tanto più vero nella mediatizzazione continua della nostra vita che è in atto, infiltrata negli spazi più minimi e nei tempi più ridotti degli individui e delle società.
Le responsabilità maggiori dell’inquinamento le hanno le grandi aziende inquinanti. Ma non solo. Sono infatti gli utenti a fare un uso pessimo delle risorse a disposizione, producendo hate speech, insulti, scegliendo troppo spesso di rispondere alle provocazioni, innescando un vortice tempestoso e mefitico. Colombo sostiene che «la comunicazione è la nostra prima esperienza di individui, e anche il nostro mandato come appartenenti alla specie: ciò le assegna un valore prezioso, e la sua qualità è evidentemente un problema cruciale oggi come ieri»
Per chi celebra l’esperienza di «disimparare» è allora un percorso naturale additare la via della rinuncia a qualcosa, come una parola, una frase, un’immagine di troppo, per proteggere l’essere che comunica.
Ogni azione, anche verbale, ha delle conseguenze e può creare vittime. Per evitarlo, Colombo suggerisce di riattivare la gentilezza della comunicazione, termine che rimanda «all’appartenenza a una gens, una famiglia, e quindi alla stirpe di tutti, a quella comunità di destino che è l’umanità intera».
Oggi come non mai questo invito nel mondo squassato dalla guerra e dall’odio diventa vivo. Ma di quanta gentilezza abbiamo bisogno per invertire la rotta? Non importa, l’importante è ricominciare a cooperare, sentendoci cittadini, e avendo sempre in mente quello che possiamo essere gli uni per gli altri «se la comunicazione è pensata come un legame di apertura e non come la narcisistica espressione di tanti individui soli, affidati alle logiche auto-generate degli algoritmi e dei loro valori».