Comunicazione

Le parole sono importanti (i numeri, a volte, meno)

L’Italiano, dicono in parecchi, ormai da qualche anno è la quarta lingua più studiata nel mondo – in realtà è probabilmente solo la lingua più scelta come quarta, nel mondo – ed è certamente quella più parlata come madrelingua in più paesi, 26 in tutto. Non è detto però che lo sia in Italia.
I bambini italiani, sorprendentemente, sarebbero più abili, nella lettura, dei loro pari grado degli altri Paesi europei. È un vantaggio che purtroppo perdono in fretta, dal momento che già a quattordici anni molti di loro si fanno deboli e crescendo peggiorano, soprattutto dopo i venticinque anni. Se poi diventano professionisti leggono solo libri che riguardano direttamente il loro lavoro, e se diventano manager smettono del tutto.

Non significa, tuttavia, che non si legga: si legge tantissimo, e ancora di più si scrive. Ma la lettura predominante è quella dei social, degli avvisi, delle pubblicità, perfino delle insegne in strada. Da quando «la musa ha imparato a scrivere», cioè da quando la nostra cultura si è fatta scritta – e, come ricorda E.A. Havelock, stiamo parlando di molto tempo fa – probabilmente non si è mai letto tanto.

È un parlare immediato, spesso formulare, che non ha bisogno di particolare attenzione; è ugualmente prezioso, e ci permette di acquisire un esperanto di informazioni che solo qualche anno fa non avremmo saputo immaginare.

Dall’altro lato si ascolta, e moltissimo: in canzoni, in video, in streaming, per la strada; spesso anche le conversazioni altrui, condivise da telefoni col vivavoce ad alto volume. Per lo più si tratta di parole in fila, irriflesse, più o meno in rima, in un rimescolarsi di linguaggi che vanno dall’onomatopeico all’interpretazione fonetica del misterioso idioma del codice Voynich.

È un fiume che in ogni caso scorre, ed è un bene.

L’aspetto negativo è che ha una foce ampia, qualche volta distorta in meandri; e spesso finiamo per non chiederci – non ne abbiamo il tempo, non ne abbiamo la voglia, pensiamo di sapere già – se abbiamo compreso correttamente, se per esempio abbiamo proprio capito che Tambourine Man è (o potrebbe essere) un pusher, tanto per ricordare una canzone fondamentale per la musica rock degli anni sessanta, il cui autore è stato premiato con il Nobel, qualche anno fa.

A volte le parole partono, già, ottuse, imprecise, irriflesse.

Non è che se sono immediate suonino più sincere; più spesso è che non abbiamo pensato abbastanza al significato di ciò che stiamo dicendo; parliamo, come dice qualcuno, una “lingua di plastica”.

Il fatto è che con l’abitudine a una fruizione “leggera” delle parole anche la nostra competenza specifica nell’uso della lingua – nella produzione – va diminuendo drasticamente; il nostro vocabolario si impoverisce, perdiamo di sfumature.

Accade soprattutto perché con l’avanzare del tempo e degli impegni si perde sia l’abitudine – se mai se ne è avuta l’attitudine – alla lettura profonda, che poi è quella che ha voglia di chiedersi il senso dei termini al di là della vista, sia all’ascolto. Quello attento, si intende.

Possiamo sforzarci, però. Di approfondire un significato, una notizia; persino di cercare su google il termine che non abbiamo compreso; addirittura di acquisire una parola al giorno, al mese: ne usciremo più ricchi, certamente, almeno di verbi da utilizzare.

D’altro canto, se ne siamo emittenti, dobbiamo chiederci che tipo di fruizione avranno gli interlocutori, delle nostre parole, e cercare di ragionare di conseguenza.

In questo senso potremmo anche accontentarci, una volta l’anno, di essere imprecisi. Se i concetti ci mancano non è un delitto neppure ricorrere a un prestito: né dalle lingue più diffuse, come l’inglese, né da quelle inspiegabilmente vivaci come il latino, e neppure dagli argot più lontani. Per spiegare un concetto specifico come il senso del viaggio di Cristoforo Colombo la «serendipity» va benissimo, e funziona bene anche esortare qualcuno a «ubuntu», che come tutti sanno non è solo una distribuzione del sistema operativo Linux ma anche, soprattutto, in lingua bantu uno «stato d’essere in pace col mondo» («io sono perché noi siamo»).

Anche se per (quasi) ogni concetto esiste in italiano un termine per esprimerlo, alcune parole nascono in determinati ambiti ed è bene che in questi nuotino a loro agio; se vogliamo colpire, una parola in una lingua straniera può aiutarci a richiamare l’attenzione. Purché sia una; o anche una frase intera, ma in equilibrio col resto, contestualizzata a proposito, e soprattutto sia usata consapevolmente.

Vale anche con la liceità di arrotondare le cifre, per evitare che un numero sia così preciso da non dare l’idea («oltre un milione» si capisce meglio di «1.052.212,53»; “rendiconta” meno, ma vogliamo scommettere quale dei due resterà più impresso?).

A patto, sempre, di sapere con esattezza che cosa stiamo dicendo, e di che tipo di imprecisione ci stiamo macchiando così da assumerci un rischio, ma un rischio che ne vale la pena.
A nessuno piacerebbe essere schiaffeggiati da Moretti per aver usato a sproposito «kitsch» e «cheap» (era in Palombella rossa, 1989), o peggio, che il messaggio resti incomprensibile, o proprio non arrivi al destinatario.

EDUCatt EPeople