Comunicazione

Quanto fa la comunicazione (integrata)

Sempre più spesso le campagne di diffusione di contenuti sono l’ultimo passo di un processo di comunicazione aziendale in cui tutti gli elementi, e soprattutto tutte le persone, integrati tra loro sono importanti per garantire il successo di un’iniziativa o la durata nel tempo di una buona reputazione.

Una chat di lavoro, su whatsapp o Telegram, che contiene parole, immagini e messaggi vocali; il disegno di un colibrì che s’appoggia al tronco, rugoso, di un albero; una tv che trasmette il segnale disturbato di video notizie; il cartello di un ristorante, scritto a mano e appeso alla porta con lo scotch, che annuncia un menu gourmet; una email non firmata che chiede al destinatario un contatto. L’elenco, che potrebbe continuare all’infinito come quello telefonico di Atlantide ed esser fumoso e impreciso come la mappa delle Ferrovie del Messico, riporta esempi di quel processo che permette di veicolare un messaggio tra sistemi più o meno omogenei, (umano-umano, umano-macchina, animale-umano e così via) che qualcuno chiama comunicazione.

In tutti i casi citati, una gran differenza la giocano il canale utilizzato, il codice e il contesto.

Trasferiti in ambito aziendale quelli appena citati possono essere esempi, di volta in volta, positivi o negativi di comunicazione e, per quanto possa sembrare strano, in particolare di comunicazione integrata, cioè di tutto quel complesso di informazioni che permette di mantenere una relazione stabile e duratura con gli stakeholder, ossia con gli investitori, il pubblico, eccetera; in sostanza con tutti coloro che hanno interesse a interagire con l’azienda, e che basano il loro rapporto con essa essenzialmente sulla fiducia.

È un insieme di azioni, strumenti e contenuti che uniti possono portare a risultati migliori rispetto alla semplice somma degli effetti delle singole azioni.

Come si sa, è un concetto cardine della disciplina, ma finisce, forse troppo spesso, per essere sottovalutato: il “come” si comunica è parte integrante della comunicazione stessa; il “che cosa comunicare” deve tenere conto dei fattori — molteplici — di contesto per sfruttarli e ottenere un risultato migliore, unendo le forze di ciascuno degli strumenti in modo che il totale faccia più della somma.

Il tipo di medium, ma anche i comportamenti, il tono di voce o le parole che scegliamo, e persino i gesti, come gli spazi bianchi tra le righe di un testo in cui ciò che si dice è tanto importante quanto ciò che si omette, come insegna lo storico (non uno qualunque, è Marc Bloch nel suo bellissimo Apologia della storia), possono fare la differenza per ottenere o meno la fiducia dei nostri interlocutori.

I nostri atti, i nostri atteggiamenti, le nostre parole nel contesto lavorativo, anche se non ricopriamo un ruolo istituzionale — e a maggior ragione quando poi ci troviamo ad avere funzioni di rappresentanza, verso l’interno (ad esempio i colleghi, i capi o i sottoposti) o verso l’esterno (ovviamente i clienti, ma anche i fornitori, i partner, i possibili finanziatori) — comunicano non solo noi stessi, ma anche, forse soprattutto, l’istituzione, l’azienda o il gruppo cui facciamo riferimento, che anche grazie al nostro piccolo contributo può acquistare o mantenere una buona o cattiva reputazione.

È allora in particolare che dobbiamo riflettere sul contenuto che il nostro messaggio veicola e chiederci perché il nostro interlocutore dovrebbe ascoltarci, e magari convincersi a darci fiducia.

Si tratta, in sostanza, di scegliere che cosa non dire e che cosa dire, ma anche di porre attenzione a come dirlo e con quali strumenti, senza lasciare che l’improvvisazione o la fretta ci abbandonino al fraintendimento e che le migliori intenzioni, come nel vecchio adagio, producano pessimi esiti.

Sembra incredibile, ma in questo contesto anche il sorriso del cameriere che serve la pasta al tavolo di un ristorante può fare la differenza tra il tornare o meno dei suoi clienti.

Certo è vero, la pasta non deve essere scotta.

P.S.: Per tornare all’inizio, si potrebbe fare più di un esempio su chat di lavoro inoltrate alle persone sbagliate, con risultati a volte deflagranti; o sul fatto che il colibrì, un uccello della famiglia di trochilidi considerati i più piccoli al mondo restituisce una sensazione di leggerezza, ma nel logo di una multinazionale petrolifera potrebbe risultare fuori posto; che la tv sintonizzata su un canale allnews disturbato va benissimo in un contesto d’emergenza, ma in un bar può far fuggire i clienti; che il cartello di un ristorante vergato a mano può dare un’idea di spontaneità, ma molto dipende anche da come quel Ristorante intende presentarsi, non solo dall’abilità di scrittura in stampatello dello chef o del cameriere. Una email non firmata invece è sempre un errore: può essere tollerata in una discussione informale tra noti, ma non lo è mai tra persone che non si conoscono. Gli esempi potrebbero continuare a moltiplicarsi, ma per fare il gioco e provare a imparare basta guardarsi perlopiù intorno, e qualche volta cercare di ricordare come ci si è comportati in una data occasione.