Storie

A Chiaravalle, dove i viaggi iniziano

Monumento funebre al Banchiere Mattioli, scultura misteriosa di Giacomo Manzù, l’angelo dell’Abbazia di Chiaravalle a Milano canta – silenziosamente – melodie nel «tempo altro» di un luogo fuori dal tempo a chi voglia ascoltare. Qualche anno fa un fotografo e uno scrittore hanno condiviso brevemente la vita dei monaci, traendone un libro poetico e fotografico di grande impatto.

Alle porte di Milano – e all’uscita per chi ne va via – un campanile accoglie i ritorni e identifica, prima e più d’altri segni, prima dell’urbanizzazione evidente e delle gru gigantesche che sempre s’agitano in periferia, l’ingresso in città; ha un nome da filastrocca per bambini, «Ciribiciaccola», che non significa molto ma suona amichevole; e amichevole suona ancora la sua campana, azionata a mano ancora oggi e in sede, a più di cinquanta metri d’altezza, dal 1453 (un anno orribile, per altre cose lontane: accadeva in quel tempo, ad esempio e monito, la caduta di Costantinopoli).
La torre sorge dalla crociera dell’Abbazia di Chiaravalle, voluta da san Bernardo di Clairvaux (1090-1153) nel 1135 e tuttora abitata da monaci che seguono la regola operosa di San Benedetto, interpreti di un mondo contemporaneamente dentro e fuori dal tempo, che ha norme salde, modi, parole, silenzi toccati soltanto in parte da ciò che s’agita convulsamente alla porta, cui famiglie ai margini bussano continuamente cercando sostegno e rifugio.

Un gioiello accogliente, questa abbazia cistercense in cui s’alternano luce e ombra, in un silenzio che si spande sul paesaggio e che entrando si tocca, quasi, tra gli affreschi, la Madonna del Luini, il coro ligneo di Garavaglia, le pissidi, gli altari e la croce sospesa nel vuoto, fino agli spazi apparentemente deserti, e che travalica la presenza discreta dei monaci.

In un canto, isolata e silenziosa anch’essa, nel transetto di sinistra, adiacente a una piccola porta che s’apre sul minuscolo cimitero dei monaci, c’è una statua in marmo dal profilo incerto, un monumento funebre ricoverato lì a preservarlo dalle intemperie, una figura difficile da identificare che sulla base riporta un passo del salmo 138 in una versione alternativa della Vulgata di san Girolamo: «Exsurrexi et adhuc sum Tecum», che si riferisce a un risveglio e a un ritrovarsi. Un angelo, forse, metà uomo col piede legato alla terra, metà donna del tutto libera, che veglia su una tomba poco distante.

Giacomo Manzù – scultore, artista legato all’Università Cattolica anche per una immacolata tenerissima dai capelli corti, longilinea e androgina – completò l’opera nel 1975, scolpendola in un blocco di marmo di Carrara, su richiesta e in memoria del suo amico Raffaele Mattioli che in quel piccolo cimitero aveva chiesto, e ottenuto in quanto benefattore, di essere tumulato, e scegliendo il luogo s’era accasato nella porzione di prato in cui nel 1281 erano state sepolte le spoglie di Guglielmina di Boemia, mistica, predicatrice, quasi santa e poi dichiarata eretica, oggetto di venerazione popolare, bruciata al rogo post-mortem, senza dubbio un personaggio particolare.

Mattioli il posto l’aveva scelto perché gli piaceva «la terra umida della bassa milanese, i filari di pioppi», ed è vicino a San Giuliano, dove aveva conosciuto la moglie Lucia Monti: una dichiarazione sentimentale, molto romantica per il «banchiere umanista» (1895-1973), amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana (la COMIT), sostenitore di Enrico Mattei, mecenate di scrittori, bibliofilo e al centro di molta editoria milanese, che per Chiaravalle aveva finanziato una nuova edizione critica dell’Opera Omnia di san Bernardo – il doctor mellifluus cui è attribuito, tra numerose preghiere e molte frasi celebri, anche l’avvertimento che il paesaggio è «più ampio nei boschi che nei libri» –, la ricostruzione di gran parte del chiostro duecentesco andato distrutto durante l’Ottocento e appunto il monumento funebre commissionato all’amico Manzù, cui pare avesse chiesto, inascoltato, che rappresentasse una robusta figura virile.

Qualche anno fa in abbazia, per un’idea di sostegno per voglia di riflessione, per un percorso comune, un fotografo e uno scrittore, con i loro strumenti del mestiere, si sono fatti interpreti e parte integrante del quadro, finendo per vivere qualche giorno della comunità cistercense cercando uno sguardo non convenzionale, non da studiosi ma da compagni di viaggio, quasi pellegrini che bussano alla porta e vengono accolti nel nome della carità e all’insegna della condivisione.

Ne è uscita una bella esperienza, ne è rimasta traccia in un libro di foto e parole scritte a mano, con uno sguardo profano sulla consistenza di un mondo trasparente nel quotidiano eppure così presente sul territorio, chiuso e contemporaneamente apertissimo, un invito, rivolto a quanti abbiano voglia di una scoperta – la città è lì dietro, l’abbazia emerge dalla tangenziale, circondata da fili e tralicci che ospitano corvi urbani –, a visitare Chiaravalle con quella curiosità che porta ad apprezzare la differenza, e con la spinta a far propri il silenzio, la riflessione, la carità, la preghiera, che si respirano in quel mondo a un passo, che si riflettono in un «invisibile canto del silenzio».

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