Comunicazione

La lingua di plastica

Le «parole di plastica» fanno parte del nostro quotidiano, tanto trasparenti da attraversarci: reagire è un invito a prenderci il tempo di ragionare sul valore delle parole, di cercare di utilizzarle per ciò che sono, per non cedere al rischio della banalità di stereotipi così frequenti da risultare inavvertiti all’orecchio. O di avere la forza di stare in silenzio, se proprio non abbiamo qualcosa di intelligente da dire.

«Il premier scende in campo contro la madre di tutte le tangenti, i ministri fanno un passo indietro. Tutti scelgono una linea dura piuttosto che un approccio rigido. Bocche cucite sugli sviluppi che presentano una struttura complessa».
È un esempio di fantasia, più che altro un gioco, di quel che potremmo leggere su un quotidiano qualsiasi in un giorno qualunque. Non troppo lontano dalla realtà.

«Quant’altro», «piuttosto che», «La colonnina di mercurio» (che non si usa più, per misurare la temperatura, davvero da parecchio), «voltare pagina», «banco di prova», «bocche cucite», eccetera: tutte espressioni utilizzate spesso, specie in campo giornalistico ma anche in riunioni e contesti pubblici, in maniera meccanica, senza pensarci troppo (e neanche poco): trasformano testi, discorsi e articoli in giochi a incastro di parole, fino a rischiare persino una scarsa aderenza alla realtà. Ne parlava, in un articolo di qualche anno fa, Ettore Marchetti; ma la questione era già stata affrontata sul Corriere (di un’altra stagione, molto diversa da quella attuale); ne ha parlato anche il Post, che fa del contrasto a questa abitudine una parte importante della filosofia del giornale, con un articolo semplice, ma citatissimo online.
A ragionare sull’argomento aveva iniziato per tutti Ornella Castellani Polidori, che nel 1995 aveva cominciato coll’esaminare la lingua dei telegiornali e dell’informazione: vi verificava, spesso, un uso spropositato di formule e frasi fatte come da titolisti assonnati, buone a riempire i blocchetti e poco di più, una lingua fatta «di plastica».
Tanto più vero anche oggi, a distanza di quasi vent’anni, quando molti quotidiani, soprattutto online, si sono orientati all’intrattenimento più che all’informazione: una volta asciugata la sostanza della notizia – che abbastanza spesso tale non è affatto – non finisce per rimanere purtroppo altro che l’immagine di qualche gattino.
La studiosa ha poi aggiornato la sua tesi nel 2002, ma nel frattempo l’argomento è stato trattato anche da molti altri, dal filosofo Serge Latouche a Vera Gheno fino a Emanuele Fadda (2021), eccetera.

La riflessione, in sé interessante, coinvolge anche le singole unità di senso: Uwe Pörksen, in un libro ormai quasi introvabile (Parole di plastica. La neolingua di una dittatura internazionale: l’ultima stampa è del 2011 presso la Textus Edizioni, che assicura che il libro tornerà disponibile), le definiva “parole ameba”: non più di qualche decina di termini che «cambiano la loro forma adattandosi alle intenzioni comunicative di chi li usa», ma che soprattutto sono frutto di una duplice migrazione, dalla lingua comune alla lingua delle scienze per ritornare alla lingua comune.
Alcune di queste sono così radicate nel nostro linguaggio comune che ormai, con i loro derivati, sono diventate trasparenti, cioè utilizzate a sproposito, con leggerezza e nei contesti più ampi (qualche esempio: “è un problema di comunicazione”, “il management”, “in funzione di”, “la struttura” o “un fatto strutturale“, “un sistema“, ecc. E l’elenco potrebbe allargarsi con molti anglismi che fanno un percorso simile, restando ugualmente fuori posto).

Ne esce una lingua “formulare”, piena di stereotipi che si ripetono, appunto.

In Omero, che le formule le ha consegnate alla letteratura, così come in altri poemi orali – veri o falsi, da Ossian in giù – l’espediente serviva all’aedo, al narratore, per ricordare ciò che veniva dopo, per rendere più semplice il ritrovare il verso giusto tra migliaia d’altri.
Con i «plastismi», parole o intere frasi, invece si tende a riempire un vuoto di pensiero che permette, in discussioni sempre più irriflesse, di guadagnare tempo.

Pensiamoci. Capita a tutti: si utilizza in maniera impropria una formula che permette di allungare il discorso. Il rischio è che, come per i discorsi dei diplomatici di Trantor, la capitale-mondo inventata insieme a molto altro da quel genio di Isaac Asimov nel ciclo della Fondazione (una serie di romanzi e racconti di fantascienza recentemente rinovellati da una serie TV che per molti appassionati ne ha tradito la sostanza, ma che ha avuto il merito di riportare all’attenzione una scrittura, come quella di Asimov, di narrativa facile e altissima contemporaneamente), una volta bruciata la plastica di sostanza non ne rimanga traccia.
Non esiste (ancora) uno strumento che permetta di arrivare al contenuto di base di un discorso più o meno suadente per verificarne l’effettiva consistenza, come quello utilizzato nel romanzo da Salvor Hardin, il protagonista provvisorio del romanzo Fondazione (1951, pubblicato in Italia prima col titolo Cronache della Galassia), sindaco di un piccolo mondo alla fine della galassia che si oppone all’elefantiaco potere centrale, ma ci siamo vicini: in verità in alcuni casi basterebbe analizzare un discorso anche soltanto con carta e penna; per quelli più complessi potrebbe essere un esperimento interessante sottoporlo a una AI, e verificarne i risultati. Ma attenzione: potremmo persino ottenerne un’allucinazione da GPT, che è un’altra interessante distorsione, con la quale l’algoritmo tende a riempire i vuoti di senso.

La conclusione? Di prenderci il tempo di ragionare sul valore delle parole, di cercare di utilizzarle per ciò che sono, senza ammantarle per forza d’autorialità: quando scriviamo ma anche quando parliamo, e qualche volta anche quando preferiamo stare in silenzio se non abbiamo, proprio, qualcosa di intelligente da dire.

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