Storie

Una negazione rivelata

Un ritrovamento rocambolesco ha consentito il recupero di un’opera per lungo tempo non riconosciuta e ricoverata in un refettorio, finché non ha trovato una migliore collocazione, monito e memoria.

All’inizio dell’ultimo decennio del Novecento, nel corso di un importante intervento di ristrutturazione di uno stabile ceduto da un ente all’altro – non ne parleremo, non è essenziale il chi, in questa storia – e destinato a ospitare studenti dell’Università Cattolica, un fortunoso ritrovamento in un sottotetto, in un cantiere tra altri stracci e fogli d’archivio avviati al macero, riportava una tela malmessa su un telaio di legno a incastro e chiodi, alta circa un metro e mezzo.

Dal cantiere pare uscissero continuamente pezzi d’arredo, dai lampadari al mobilio, densi di fascino e, per così dire, di patina del tempo, o più prosaicamente di polvere. Tra gli altri, si racconta di un lampadario a candeliere – ma con le candele vere, di cera o più probabilmente di sego, con i cristalli opachi di tempo – e della carcassa di un pianoforte a mezza coda, bianco, sospeso nel vuoto e calato con un paranco sul camioncino dello smaltimento. Tutto materiale a perdere, ed effettivamente perduto.

Tra i dubbi, il quadro sopravvisse, venne fatto esaminare. A portarlo alla luce ne usciva l’ombra di un dipinto fortemente danneggiato, coperto di depositi e fumo, come abbandonato, ma che si intuiva di una mano felice, o almeno esperta. Dal laboratorio di restauro una stima prudente, la lista delle necessità: l’autore ignoto, la datazione alla seconda metà del XVII secolo, l’opportunità di intervento.

È l’inizio romanzesco di una storia che prevede il recupero di un’opera d’arte, il favoleggiare sul suo valore, sussurrato e da qualcuno anche creduto, il restauro e poi un’attenzione al renderla di nuovo disponibile alla vista come un invito alla riflessione o all’emozione, che poi è ciò che le grandi storie e l’arte bella dovrebbero fare.

Al principio, dunque, si toglie la patina, si ripulisce lo strato della pittura, si rifodera, si vernicia e si stucca: ne esce una tela grande, con una Negazione di Pietro, riconosciuto, nella locanda, e pronto alla menzogna per la salvezza. Il tema è noto (Lc 22, 54-62), e affrontato da Caravaggio e Rembrandt, tra molti altri (Mattia Preti, Valentin De Boulogne, lo Spagnoletto), nel periodo che ci interessa con varie testimonianze in ambito ligure.

Ma sulle prime basta l’immaginare per una attribuzione di prima grandezza, il resto importa meno: il dipinto è bello, si può fantasticare sul maestro che ne ha definito le pennellate, e in un momento così è possibile immaginare di tutto. Dopo il restauro viene installato a far da parete in un refettorio, poco più di un paravento che isola e sorprende i visitatori che si vorrebbero illustri, dietro un ficus benjamina imponente e rigoglioso che evita ad altri di avvicinarsi, ma toglie anche in parte la vista.

Lì l’opera resta, infrequentata parte d’arredo, per un decennio, poi finalmente viene svolta qualche ricerca che mette a tacere mitologie e favole da taverna, se ne ricostruisce per un poco la storia e se ne ipotizza un’attribuzione.

Un artista genovese, di mano o di scuola; un soggetto dipinto da Orazio De Ferrari – allievo di Giovanni Andrea Ansaldo, esponente del barocco genovese – tra il 1634 e il 1639 di cui si conosce un originale a Napoli, al palazzo di Capodimonte; da parecchio, parrebbe, non visibile al pubblico.

Quella restaurata è una copia, probabilmente, tra le cinque o sei note, ma se tale molto felice ai confronti con le altre; una traccia di quel passare alla luce dal buio, l’influenza che il transito di Michelangelo Merisi ebbe anche in Liguria – quando nel 1605 fu costretto a fuggire da Roma per il ferimento del notaio Pasqualoni e si rifugiò a Genova per ricercare la protezione dei Doria – sui zeneisi (poi Bernardo Strozzi, Luciano Borzone, Gian Domenico Cappellino), a partire da quell’Ecce homo riconosciuto solo nel 1954, non senza dubbi e polemiche che durano tra gli esperti ancora oggi.

Spostata infine in una collocazione istituzionale, la tela torna alla vista a ripetere il suo invito potente, che da quella notte buia richiama, per differenza, a un coraggio tanto umano quanto quel medesimo rinnegare.

EDUCatt EPeople