Addizioni e sottrazioni
La corsa al pubblicizzare prodotti «con» o «senza» permette sul breve periodo di catturare l’attenzione del pubblico, ma ha condotto spesso a risultati paradossali e in certi casi perfino risibili. Una comunicazione onesta deve tenerne conto come di uno stratagemma facile da cui tenersi, per lo più, ben lontani.
Qualche anno fa, sulla spinta di alcune organizzazioni come GreenPeace e WWF , si diffuse un’allerta sull’olio di palma, utilizzato in molta della produzione alimentare anche in Italia; si trattava di un richiamo al fatto che l’aumento della produzione incontrollato e irrispettoso dell’ambiente rischiava di causare la deforestazione di intere zone soprattutto in Indonesia e Malesia, tra l’altro senza alcun rispetto per gli habitat degli animali. L’accusa era motivata, tant’è che da lì nacquero o presero piede alcune etichette che certificavano la sostenibilità del prodotto (la più nota delle quali è RSPO, Roundtable on Sustainable Palm Oil). Ma nel frattempo si aggiunse la «scoperta improvvisa» che l’olio di palma, diversamente da altri oli vegetali, è un grasso saturo (e che ha effetti sull’organismo molto simili al burro, ma questo non lo si dice spesso neppure oggi) e che dunque contribuisce alla formazione del colesterolo “cattivo”. Ne seguì una corsa a indicare che i prodotti erano «senza olio di palma» e una certa demonizzazione dell’ingrediente, dal punto di vista mediatico, che ha portato ancora oggi su molte confezioni a evidenziarne l’assenza (e, forse con una certa leggerezza, a non specificare invece l’uso di grassi equivalenti più o meno anche negli effetti).
È un esempio, il più eclatante forse, di quelle pubblicità «senza» che hanno raggiunto in alcuni casi dei risultati paradossali (come il «sapone senza sapone»), volte a tranquillizzare un certo tipo di pubblico e, soprattutto, a vendere di più.
In quell’occasione, va detto, la piemontese Ferrero dell’olio di palma fece una questione di principio e ne rivendicò orgogliosamente il mantenimento nella produzione (gli investimenti fatti nel tempo per l’uso di olio di palma adeguatamente depurato permettevano già allora di equipararlo agli altri oli vegetali e di utilizzarlo tranquillamente): la scelta fu coraggiosa, ma forse è inutile aggiungere che la Nutella, il prodotto più iconico del Gruppo, non soffrì particolarmente della cosa, e neppure gli altri marchi; la Ferrero anzi continua oggi a essere il terzo Gruppo a livello mondiale nel mercato del chocolate confectionery con 37 stabilimenti produttivi, oltre 35 brand venduti in oltre 170 Paesi e più di 47.000 dipendenti di oltre 120 nazionalità diverse e una propensione all’innovazione che la sorregge costantemente.
Quando Calvino nelle sue Lezioni americane parlava della «sottrazione» non pensava certamente a questo stratagemma, ma molte agenzie di Comunicazione hanno sfruttato l’onda del «senza» – anche prima dello scandalo dell’olio di palma – per catturare l’occhio del consumatore.
Dall’altro lato si trova invece l’esempio del Perboratex, «un ingrediente di insuperato potere sbiancante», protagonista con Mike Buongiorno della pubblicità del detersivo Dash nel 1965: un additivo segreto del detersivo in polvere, che insieme al fustino cilindrico fu la carta vincente per lanciare in Europa il prodotto della Procter&Gamble, promettendo di eliminare la pericolosissima (per i capi da lavare) candeggina. La campagna in effetti funzionò benissimo e andò avanti («più bianco non si può»), con la voce e il volto dell’attore di cinema e teatro Paolo Ferrari (1929-2018) che proponeva il cambio di due fustini anonimi al posto di uno, fino agli anni Ottanta.
Ma il marchio registrato «Perboratex» pare non fosse altro che perborato di sodio, uno sbiancante presente anche negli altri detersivi sul mercato – oggi è stato sostituito dal percarbonato, che ottiene risultati migliori a temperature più basse –, che però con il nuovo nome veniva presentato come una novità assoluta.
Dash, che nel luglio 2025 ha compiuto 60 anni, era peraltro l’equivalente europeo (pare che la formula fosse praticamente la stessa) dell’allora famoso detersivo Tide, commercializzato negli Stati Uniti e scomparso a sua volta agli inizi degli anni Settanta dopo una infelice scelta pubblicitaria (sembra che lo slogan «Candeggia mentre lava» portasse, piuttosto ovviamente, ad associarlo alla vituperata candeggina).
Quella delle scaglie azzurre di Perboratex è un esempio del «con» per un ingrediente alla base, e dunque del tutto normale per un prodotto, spacciato come «speciale».
L’espediente era stato utilizzato, già qualche anno prima, dal 1956, per la pasta dentifricia Colgate «con Gardol» un ingrediente specifico inesistente (i chimici dicono che si trattasse di sodio lauroil sarcosinato, un agente schiumogeno usato normalmente nei dentifrici): a testimoniare il successo di quell’iniziativa, la confezione di Colgate Dental Cream with Gardol è finita persino nel National Museum of American History.
La lezione, per questo lungo addizionare e sottrarre che continua a essere utilizzato piuttosto spesso ancora oggi, dai cosmetici «senza ingredienti» (parabeni, siliconi, coloranti ecc.) ai prosciutti di alta qualità «con aromi naturali», è che entrambi gli espedienti sfruttano il bisogno di certezze del pubblico: la garanzia che un alimento non faccia male, che un detersivo pulisca benissimo, eccetera.
Sono leve potenti, basate su un ovvio che può funzionare bene a un costo e in tempi molto ridotti; sono però anche trovate dal sapore pastoso di inganno, formalmente corrette ma non prive di sabbia nel fondo, per lo più innocue – raccontano una verità, in effetti – ma eticamente tacciabili di scarsa onestà od opache nel migliore dei casi.
Funzionano; ma scegliere, invece, di riflettere sui propri effettivi punti di forza – se non li trovassimo dovremmo chiederci «che cosa» stiamo vendendo – e investire nel comunicarli alla lunga rischia di fare meglio: se non alle vendite, che di solito peraltro finiscono per aumentare, sicuramente ai nostri interlocutori.

