Storie

Tempo di ritorno, tempo di regali

Sembra che Giovanni Pascoli si sia trovato a passeggiare in un giorno di agosto di un anno indefinito, in un luogo non precisamente identificato nella costellazione dei paesi del Sud dell’Italia. Tutto coincideva con ciò che vedevano gli occhi e le orecchie di colui che ogni anno riceve il regalo di fare ritorno per un mese ad Itaca, o quasi tutto: era necessario inserire una -r- nell’ultima parola della sua poesia affiché la situazione mutasse e si incendiasse la festa.

«…maior in externas Ithacus descendat harenas» (Petronio, Satyricon, fr. 37), «L’uomo di Itaca discenda più grande in terre straniere» e va bene! Ma bisogna tener presente che «Sempre devi avere in mente Itaca, raggiungerla sia il pensiero costante» (C. Kavafis, Itaca).

Mattino. Silenzio. Un rintocco «Che hanno le campane, che squillano vicine, che ronzano lontane? È un inno senza fine, or d’oro, ora d’argento, nell’ombre mattutinema voce più profonda, sotto l’amor rimbomba, par che al desìo risponda: la voce della tomba». Fine! Pascoli qui non mente: le cose vanno effettivamente a terminare sempre lì, almeno a una prima osservazione sensoriale, e comunque sono temi che nella storia hanno ispirato espressioni sublimi agli uomini d’arte, tant’è che l’oboe più bello in Bach è quello che annuncia Ich steh’ mit einem Fuss im Grabe («Sono già con un piede nella fossa», appunto!), BWV 156 a partire dal 1729, melodia così impalpabilmente pregevole che andò a costituire undici anni dopo il Largo del Concerto n. 5 in fa minore per clavicembalo e orchestra, BWV 1056 dello stesso Johann Sebastian. 

Ad ogni modo si tratta pur sempre di un ritorno ad Itaca…

Qui però nasce l’esigenza di inventare una variante ai versi della sopra citata Alba festiva: proviamo con «ma voce più profonda, sotto l’amor rimbomba, par che al desìo risponda: la voce della tromba».
Sì! Così va meglio: ecco che arriva la musica fra i vicoli protetti in lontananza dal grande vulcano sonnacchioso, il Vulture ardente, ma di caldo estivo; è la banda che, dopo aver spruzzato suoni di festa nell’aria e per le strade che già sanno di domenica e di ragù, con un unico ritmato passo punta dritto verso la piazza: è l’ora della contentezza! È festa, tempus transit gelidum mundus renovatur!
Dopo l’allegro pasto comune un fermento si sparge: «arde batte il mio cuore la processione può iniziare», e così il patrono della città esce dalla chiesa cattedrale e visita per quell’unico giorno dell’anno le strade abbagliate dalle luci luminarie, le finestre che gli fanno l’occhiolino, il castello.
Rocco, il soccorritore santo e taumaturgo che nel suo cammino da Montepellier non si spinse più a sud di Acquapendente e di Roma, ma che è il più amato dalla costellazione di paesi in questa parte del Mediterraneo, e al suo passare all’improvviso arriva, così tanto attesa da non essere più attesa, la pioggia che bagna finalmente la terra.
Viene ora il momento delle arie d’opera su un filicorno così sincero che Giuseppe Verdi sembra di conoscerlo davvero: «La musica è finita, gli amici se ne vanno» ma no, guarda bene: il più grande miracolo musicale vivente, la banda, dopo il concerto ancora sfila per non lasciare andare via la festa, per non risparmiare la gioia.

Poi, dopo l’ultimo scintillante abbaglio pirotecnico del terzo fuochista, “l’artista quotato di più” passa il santo e passa anche la festa, «torna tutto come prima: l’inverno passerà, fra la noia e le piogge, ma una speranza c’è…».

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